DIGERSELTZ

foto Futura Tittaferrante


DIGERSELTZ
di e con Elvira Frosini




















foto Futura Tittaferrante





drammaturgia, regia e interpretazione: Elvira Frosini

collaborazione artistica:  Daniele Timpano
disegno luci: Dario Aggioli
materiali di scena:  Antonello Santarelli
assistente alla regia: Alessio Pala
foto: Claudia Papini, Michele Tomaiuoli, Antonello Santarelli, Futura Tittaferrante
musiche originali: Marco Maurizi
produzione: Kataklisma
in collaborazione con: Arti Vive Festival, Officine CAOS/Stalker Teatro, Consorzio Ubusettete

durata: 60 minuti
debutto: maggio 2012







L'artista è come il maiale: non si butta niente.
Uno spettacolo sulle mitologie contemporanee del mangiare. 
Uno spettacolo sull'attore: questa marginale, patetica e testarda vittima sacrificale che si ostina a mettere in scena l'eccedenza e lo spreco rituale. 

Percorso da visioni ironiche e parole masticate da una bocca sempre in movimento, è uno spettacolo che si offre in pasto agli sguardi, essenziale come un sacrificio:  una torta con candelina, un agnellino, un presepe-barricata,  i rituali della festa di compleanno, il banchetto, l’orgia, il convivio funebre, indagando le funzioni di un cibo che invade sempre di più la nostra società vorace o anoressica.


Secondo lavoro della "Trilogia della Perdita / Corpo a Perdere"
E' la perdita del rapporto con il sacro e con la comunità.
Il corpo in scena che mangia e si fa mangiare - mangiare le parole, ingozzarsi di parole, indigestione di parole - come agnelli in mezzo ai lupi, capro espiatorio, banale sacrificio dato in pasto al pubblico,  agli occhi famelici o svogliati. L'attore in scena, marginale nella sua irriducibile alterità, consuma gli scarti, l'eccedente, lo spreco, si fa corpo digerente, fragile “Digerseltz” della realtà ingozzata.
Digerseltz indaga il tema del mangiare. Il cibo come ossessione del nostro tempo (di tutti i tempi?); il cibo come tema politico; mangiare come insopprimibile azione di sostentamento,  pratica culturale massificata, metafora ossessiva, implosione autodistruttiva. Eppure pur sempre azione sotterraneamente rituale, legata al rapporto con il nostro corpo/fame, con la morte, con il sacro, con una comunità.

Promozione: Daniela Ferrante
tel. 347 2114454
danielaferrante.kataklisma@gmail.com 




foto : Michele Tomaiuoli



















Rassegna stampa

Interviste: 

"Siamo zombi ingozzati distrattamente. Intervista a Elvira Frosini" 
Mario Bianchi su klpteatro.it

"Digerire il teatro. Una conversazione con Elvira Frosini a margine di Digerseltz" 
di Maddalena Giovannelli su Stratagemmi.it


Rairadio3   >> in "Teatri in prova" di Laura Palmieri
puntata su
Elvira Frosini e lo spettacolo DIGERSELTZ

Ascolta o scarica la trasmissione in podcast sul Radio3rai


ALTRI, 8 giugno 2012
di Katia Ippaso 
foto Futura Tittaferrante
Un corpo esile che oscilla, attraversato dalle correnti interne e dagli strattoni che arrivano dal mondo. Apre la bocca. La chiude. La riapre. Parla, mangia, divora, rifiuta il cibo, è masticata viva. Per resistere, gioca. Bambole, piccoli frigoriferi, parrucche, borsette, le statuine del presepe. Con gli ogget...ti, crea un perimetro di umane cose. Ricorda, col corpo. Senza rabbia, ricorda. Con dolcezza. E si offre in pasto. Con una grazia tutta sua, senza intimidire. Lei sì che è intimidita. Ma anche coraggiosa, nonostante quella sua fisicità aerea. Non si farà male? La vedi indifesa, magra, con quei tacchi altissimi, spaesata di fronte al pubblico, ma anche accogliente, e ti chiedi se si farà male. No, non si farà male, ma è molto probabile che ci farà male. Perché quello che dice non è indifferente. Non è una cosa qualunque. Elvira Frosini, autrice regista e interprete di Digerseltz, va a toccare la soglia fisica che delimita il punto di straripamento del dentro nel fuori e la violazione da fuori dello spazio interno. Come il personaggio di Bocca in Non io di Samuel Beckett (a cui non fa volontario riferimento), la figura inventata e agita da Frosini è una "piccola minuscola bambina" imprigionata in "questa dannazione di buco". Ma in questo caso non vediamo solo il dettaglio della bocca (come voleva Beckett), ma la bambina/donna tutta intera, presa dentro questo tormento del dire: dire il discorso che ci parla, esprimere il desiderio ondivago, nominare l'eccedenza, quello spreco batailliano che ci permette l'invasione del comico dentro la tragedia del vivere così come si è: gettati in un corpo che sarà sempre troppo piccolo per contenere tutto il traffico di pulsioni e ombre che aprono e chiudono porte. La bocca come apertura verso gli inferi e soglia attraverso cui ci si mostra al mondo. La bocca come varco potente di sessualità. La bocca che parla e dovrebbe dire solo quello che altri vorrebbero che noi dicessimo, ma poi l'inconscio regala un bel lapsus e tutto va in frantumi. La bocca che prende quel cibo che finirà col renderci non attrattivi. Il cibo che ci ammala. La società che ci giudica. Noi che ci giudichiamo. Noi che diventiamo anoressici e bulimici, in una carneficina privata. Nella performance di Elvira Frosini, c'è un mondo. E vale la pena di andarlo a visitare.


(recensione anterprima)

Corriere della Sera, 5 febbraio 2012
Un pasto selvaggio in “Digerseltz”
Uno spettacolo sulle mitologie contemporanee del mangiare
 di Massimo Marino 
foto Antonello Santarelli
Grugniti. Dal buio emerge un volto senza faccia, parrucca bionda, mostro, strega divoratrice. “Preferisci mangiare o essere mangiato? Finisci tutto! Pensa ai bambini che hanno fame”: e si trasforma nella seducente Marylin che si offre preda cantando Happy Birthday al Presidente.
Digerseltz della romana Elvira Frosini, visto allo Spazio Sì, è uno spettacolo sulle mitologie contemporanee del mangiare, sull'horror vacui di una bocca mai ferma, per masticare alimenti e parole.
Con figure quotidiane o della letteratura, della leggenda, della foto: religione, percorre per salti e frammenti il nostro rapporto malato col cibo, fatto di possesso, rifiuto, eccesso, violenza. E' una critica alla società che tutto consuma divora distrugge.
L'attrice si offre inerme allo sguardo divoratore del pubblico, immedesimandosi nella vittima animale, umana, divina, dalla mangiatoia di una povera natività tra figurine di presepe all'offerta del corpo e del sangue nell'ultima cena: un pasto difficile da “digerire”. 



(recensione anteprima luglio 2011 – Teatro Civile Festival

 HYSTRIO 
di Antonella Melilli
foto Claudia Papini
E' stato il cibo quest'anno il filo conduttore scelto a Monte Sant'Angelo per il tradizionale appuntamento con Festambiente Sud e con il Festival di Teatro Civile che ad esso si accompagna. Un tema che in Digerseltz, realizzato con la collaborazione artistica di Daniele Timpano da Elvira Frosini, che ne è autrice, regista e interprete, assume l'ossessività di un incubo in cui risvolti mitologici, politici, sociali si rincorrono e tornano a intrecciarsi con crudezza angosciosa e disturbante. Un autentico atto d'accusa, che viviseziona con decisione ostinata il senso e le derive di un atto fondamentale, comune a ogni essere e esso stesso radice di vita e di sopravvivenza, come è quello del mangiare. E che fa della scena il luogo disadorno di autentiche cateratte verbali in cui i suoni esasperati della masticazione si fondono in rigurgiti spaventevoli e in biascicamenti nauseabondi di ributtante voracità. Mentre la penombra quasi costante incalza lo spettatore con suggestioni claustrofobiche di primigenie spelonche o esplosioni violente di luci da discoteca lungo il crinale di ritualità familiari, compleanni o riti funebri, o di religiosità connotate di figure presepiali. Ma anche di stordimento di massificazione mediatica che trasforma lo stesso attore in corpo da sbranare, divorare, digerire e vomitare e che l'attrice, abbrutita in gestualità ancestrali di Saturno intento a divorare i propri figli o vitalissima in fattezze plastificate di biondissimo idolo pop, restituisce con tecnica sicura e di trasformistica agilità. Incarnando e incidendo con analitica inflessibilità il fondo illogico e grottesco di una società dominata dal cibo e dalle sue devianze fisiche e morali. Mentre le parole stesse si fanno flusso bulimico di denuncia e d'accusa all'interno di uno spettacolo che sembra trovare il proprio limite nella ridondanza del suo stesso eccesso. 


Recensito.net, 14 maggio 2013
di Matteo Brighenti
“Digerseltz”, l'attore è buono in tutte le salse
foto Antonello Santarelli
Egli mangia ogni cosa. Lo spettatore a teatro come il credente in chiesa. Basta mangiare. Ha comprato il biglietto e si sente in diritto di accendere il gas sotto l’agnello di attore che si è offerto in sacrificio per lui. Vivere per ingerire cibo qualsiasi riempie, ma non sfama. È meccanica compulsiva della mandibola. È la fame fine a se stessa rappresentata con visionaria lucidità da Elvira Frosini in “Digerseltz”. Nell’intestino c’è buio e dal buio comincia lo spettacolo. Si sente il rumore di un essere che mangia e risputa il suo grugnito. È solo suono finché una luce fioca non gli dà il corpo di una donna, le zeppe, il vestito corto a fiori. Il busto è proteso in avanti come quello di un corridore ai blocchi di partenza: scappa il più veloce possibile dalla fame che il pubblico ha di lei. 
Così ha finito per mangiarsi anche l’identità. Il viso della donna, infatti, non è più di un’ombra con i capelli di una Marilyn Monroe dissolta dai rigurgiti. Le parole nascoste dalla voracità dell’inghiottire – quasi il contrappasso di Bocca in “Non io” (testo di Beckett del ’72), il personaggio di cui si vede solo la bocca illuminata da un riflettore – acquistano visione e movimento all’aumentare della luce sul palco. “L’attore è un pezzo di carne in mezzo al piatto” dice Frosini: una solitudine di porcellana condivisa in “Digerseltz” con una bacinella (dove lei mangia e si specchia com’è), un bambolotto (l’immagine che il pubblico ha di lei) e un mini frigo portatile che conserva un bicchiere di diger selz, digestivo effervescente. Digerire per mangiare, mangiare per digerire: è il senso del nostro tempo bulimico che comincia e finisce nel frigorifero, versione casalinga del monolito di “2001: Odissea nello spazio” di Kubrick.
“C’è chi prende il lexotan, io prendo il frigo” prosegue Frosini nella sua macellazione della mitologia contemporanea del cibo. Arriva fino a trasfigurarsi in Gesù Cristo, il pane della vita. La religione è anch’essa un anello della catena alimentare



Dramma.it, maggio 2013
di Caterina Matera 
foto Antonello Santarelli
L’equilibrio dell’essere, secondo la riflessione fenomenologica, si fonda su due poli: il Leib (corpo-vissuto) e il Koerper (corpo-oggetto). Tale dualità pone il corpo, al medesimo tempo, soggetto e oggetto e trova il suo completamento nella relazione con il mondo esterno (lo spazio) e il mondo interno (il tempo). La dialettica generata dai poli consente di esistere in un equilibrio perenne in stretta connessione con il mondo. In un’era in cui il corpo è veicolo d’istanze consumistiche, la conseguenza ultima è la totale perdita del Leib. Quando il Leib svanisce totalmente nel Koerper, la coscienza del nostro essere nel mondo si disperde e siamo dentro Digerseltz. Elvira Frosini parte dalla danza per esplorare il corpo nella sua trasfigurazione e giunge a Digerseltz, un lavoro che inizia nel 2010 ed è riproposto al Teatro dell’Orologio di Roma.
La ricerca della Frosini esplora la dimensione culturale del cibo e i suoi rituali. In scena una barricata di figuranti che rimandano a personaggi biblici (gli apostoli in un primo momento e il presepe sul finale), divide il pubblico dalla performer.  Un piccolo frigorifero portatile sul fondo del palco, un agnellino di peluche, una ciotola colma di cibo e una bambola sono gli elementi scenografici. Oltre la barriera, emblema dell’incapacità comunicativa e al contempo delle strutture morali, c’è una donna minuta e magrissima di cui notiamo, immediatamente, la scialba parrucca bionda e il microfono.  Capiamo che è un’attrice il personaggio che si è dato in pasto durante l’ultima cena. Il gioco del teatro nel teatro, scivolata via la parrucca, racconta di come un artista sia diventata carne da macello, “un pezzo in mezzo a un piatto”, una bocca, una cavità, una voragine. Un convivio lugubre e sacrilego in cui sono messi in discussione gli aspetti sociali, religiosi, politici e culturali. Tanto dissacratore che l’attrice si dona in sacrificio attraverso il rituale eucaristico cattolico, si sostituisce a Maria nel presepe simulando una madre arcigna e feroce che incita al cannibalismo e, infine, usa la tovaglia bianca (disposta per terra a simulare il banchetto) come tunica, tramutandosi in una dispotica e sinistra figura che ribadisce: “Io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”.
La Frosini (eccellente performer) restituisce una dimensione malinconico-pop in cui l’individuo è il surrogato dell’io. La scrittura è nervosa, ridondante, timbrata e sonora.  “Tu non sei me , io mangio te”- canta invasata in un frangente ritmico e macabro che immobilizza lo spettatore. Allora, chiede: “Siete vivi? Respirate?”.
Digerseltz è un corpo asciutto, dissipato che, contrariamente, rivela una condizione sociale bulimica: “Mangiamo tutto e scordiamo in fretta”.  Accumuliamo, divoriamo, riempiamo senza indugio assecondando un istinto compulsivo che palesa un vuoto interiore. Corpo che nell’atto di essere divorato, divora  a sua  volta con tale voracità da dilapidare l’essenza.  Una bocca che ha dentatura ferrosa i cui ingranaggi sono costituiti da dogmi religiosi, sistemi di massificazione e spersonalizzazione.
Una parabola dell’eccedenza, in cui domina il verbo e il verbo è presso la bocca.
La bocca è avida e carnale, ingurgita e sputa, inveisce e vomita.

amandaviewontheatre.wordpress.com, marzo 2013 
di Laura Bevione
Sul cannibalismo del pubblico
foto Michele Tomaiuoli
Gli spettatori comodamente seduti in platea non sono, in fondo, che cannibali, certo civilizzati e ben vestiti, ma pur sempre compiaciuti antropofagi e, d’altronde, pagano anche un regolare biglietto per esercitare questa pratica atavica. Questo il pensiero maturato da Amanda dopo aver assistito a Digerseltz, l’irresistibile spettacolo scritto, diretto e interpretato da Elvira Frosini. Una riflessione sull’onnipresenza nella nostra società del cibo, delle immagini e della retorica a esso collegate. La performer vomita al microfono masticazioni e risucchi, stereotipi e frasi fatte, considerazioni auto-assolutorie sulla fame nel mondo e ossessioni estetiche, ritraendo una realtà in cui il mangiare è tutto tranne che un’azione necessaria alla sopravvivenza. Ma Elvira Frosini va oltre e traccia un parallelo fra l’atteggiamento che la pasciuta società capitalista assume nei confronti del cibo e quello che essa adotta verso gli artisti: divorati, fatti a pezzi, poiché, «come con il maiale, non si butta via niente», vittime sacrificali della voracità del pubblico, ovvero ignorati, nutrimento sdegnosamente rifiutato da anoressici impegnati a preservare l’essenziale magrezza del proprio spirito. L’attore si offre sul palcoscenico come su una tavola imbandita, pronto a essere inghiottito voracemente ovvero immediatamente rigettato da uno spettatore che – bulimico oppure anoressico – non pare più capace di “ruminare”, di rimasticare nella quiete quanto assorbe dalla scena. L’arte come il cibo – suggerisce l’intelligente Elvira –  entrambi prodotti destinati a un consumo rapido e, il pubblico ama illudersi, senza conseguenze.




TeatroeCritica.net, 22 maggio 2013
di Andrea Pocosgnich
Digerseltz. Rito teatrale e perenne abbuffata

foto Futura Tittaferrante

 A fine spettacolo mi intrattengo con un giovane spettatore, avrei scoperto dopo qualche chiacchiera essere uno degli allievi di Elvira Frosini e del Katalab, percorso di formazione tenuto dall’artista nel piccolo spazio Kataklisma. Tra le cose che più avevano colpito l’attento sguardo di quell’appassionato vi era il suono nauseante di una masticazione vorace, frenetica attività muscolare amplificata nei suoi più evidenti rigurgiti, tabù della nostra educazione, attività quotidiana celata e per questo irritante. In una penombra scurissima che lascia alla pupilla solo la luce sufficiente a scrutare la silhouette di una bionda parrucca chinata verso il basso, si consumano quelli che sono probabilmente i caratteri più potenti dell’intero spettacolo, ne sono cuore e metonimia: in quel disgustoso muoversi di mascella, lingua e saliva, nella sua amplificazione sonora c’è l’Occidente abituato a consumare più del necessario, la foga dei migliaia di pranzi, cene, cenoni, banchetti, degustazioni, brunch, colazioni, buffet che ci accompagnano in una vita intera.
In Digerseltz, tornato alla sala Orfeo del Teatro Orologio a Roma rinvigorito da una tournée in tutta Italia, Elvira Frosini si muove pochissimo, eppure la sua fisicità è puntualissima proprio nei più piccoli dettagli, nei piccoli passi come nei movimenti a terra, nelle pause che si prende tra un fiume di parole e l’altro. Quella bulimia espressa nel tema, voracità inappagabile, trova il suo riflesso nella voracità verbale del testo. In scena c’è quasi nulla se non piccoli oggetti e delle icone bidimensionali che nel finale andranno a comporre un ironico e “affettuoso” presepe; il cibo di cui si parla è tutto nelle inarrestabili tirate. D’altronde l’attore stesso è cibo, carne da consumare: «me ne sto qui, sola come un pezzo di carne nel piatto», parole pronunciate dalla performer in uno dei momenti più toccanti dello spettacolo, quando dopo aver abbandonato la parrucca bionda viene avanti verso il pubblico, con fragilità disarmante nella voce e negli occhi, con una magrezza che per antinomia diventa contraltare efficace della grande abbuffata. Parlando del cibo si parla anche della sua assenza.
Le immagini di Elvira Frosini sono certamente fotografie instagrammate di un paese, verrebbe da dire, fondato sul cibo e non sul lavoro, che ha secolarizzato a suo uso e consumo i riti legati al mangiare, ma altresì fanno da specchio deformato ai mutamenti che sottopelle iniziano ad aggredire il paese stesso: le classi più deboli ridotte alla fame, i disoccupati che fanno compagnia ai migranti, occupanti di quella zona grigia di invisibilità in cui siamo abituati a relegarli. E allora la grande abbuffata di Digerseltz può essere letta anche come il suo contrario, come se il fiume di parole rimanesse nell’aria, rimbalzando ottusamente nel vuoto della scena e scivolando via sul magrissimo e sincero corpo di Elvira Frosini.



Scenecontemporanee.it, 17 maggio 2013
di Renata Savo

Digerseltz. Elvira Frosini si dà in pasto allo spettatore affamato, in uno spettacolo sul rapporto della società con il cibo
foto Antonello Santarelli
Una volta, durante il Medioevo, e poi con Shakespeare, si diceva “Il teatro è lo specchio del mondo”.
La metafora ora sembra tornare alla ribalta, in tutti i sensi. Perché se la dura legge che governa questo mondo è quella che instilla il germe di una spietata selezione naturale, “Mangia o sei mangiato”, così vale anche per l’attore, che sporgendosi davanti ad altri individui deve riuscire a divorare il “qui” e “l’ora” della vita di qualcun altro, e lasciarsi a sua volta consumare dagli sguardi.
Elvira Frosini. Parrucca bionda spettinata e posticcia, il corpo smilzo, slanciato dalla zeppa delle scarpe un po’ come si usava nel teatro antico per ingigantire la propria figura e catturare l’attenzione, un vestitino colorato che lascia scoperte le sue gambe ossute. In Digerseltz si diverte a sviscerare il teatro dall’interno attraverso la parola, l’espressività, il dialogo con la nostra quotidianità, partendo dai meccanismi drammaturgici, performativi, linguistici che s’innestano in un’idea semplice ma geniale, come il rapporto della società con il cibo. Un rapporto complesso, fatto di arroganti contraddizioni, di metafore, di modelli di comportamento, di rispecchiamenti, di rifiuti organici ed espressi, che oggi ha acquistato una funzione e uno spazio sempre più ampi. Si mangia non soltanto per nutrirsi, ma anche per conversare, per dimenticare, per piacere, per comunicare sentimenti. “Mangia!”, o “hai mangiato?”, non è soltanto una “frase d’amore” come disse saggiamente Elsa Morante, ma può essere pronunciata in mille modi: alcune volte rappresenta una minaccia, un assillo, altre, un’abitudine. Un “rito”. Sembra un rito divertente e giocoso, quello che Frosini mette in scena. Bastano pochi oggetti, figure inanimate e meta-religiose come i pastori di un presepe, per allestirlo: il rito della tavola che ripetiamo ogni giorno uguale a se stesso ma come se fosse l’ultimo. L’Ultima cena di un’esistenza vuota e solitaria come il nostro frigo prima di andare a fare la spesa. La “solitudine del limone” è un’immagine che ci rispecchia.
Elvira Frosini costruisce abilmente immagini attraverso fiumi di parole che incastra perfettamente tra loro in un linguaggio surreale, dove le locuzioni diventano trampolini di lancio per nuove idee, per nuovi legami con il reale e la sua spettacolarizzazione. E’ fantastica nella sua mimica e con la sua voce, lavorata con sapienza insieme a una fisicità che coinvolge tutta la bocca con deglutizioni, salivazione, masticazione, per diventare apparato digerente che rigurgita parole al pubblico affamato di spettacolo. Sa darsi in pasto con eleganza, trasgressione, ironia e intelligenza. Can you eat me?



Massimo Marino - Controscene

Sembra quasi divorata dalle parole sul cibo, spesso cliché, che la parlano, la dominano, la guidano in rituali sociali e mitologici dove appaiono le figure di Saturno che mangia i propri figli, una bionda Marilyn in preda a parole, canzoni, uomini, fino a un’apertura verso il pubblico aprendo la barriera del presepe, metafore di ganasce sempre in movimento, che scambiano il piacere con il possesso. Parole, parole, parole, per sostituire atti dei quali abbiamo perso la necessità, l’urgenza. Sulla sfondo una torta con candelina e un agnellino di peluche, uno dei giocattoli che costellano sempre le visioni pop di questa attrice-autrice dal segno essenziale ed efficace come un sacrificio.




"Digerseltz - siamo tutti nella stessa bocca"
di Napoleone Zavatto
teatrionline.com, 4 marzo 2013
C’è stato un tempo in cui l’uomo viveva per sopravvivere. In particolare, si trovava nella situazione di essere in bilico tra il procurarsi il cibo e l’alternativa, meno allettante, di essere mangiato da bestie feroci. Grazie alle capacità di relazionarsi con l’ambiente esterno – modificandolo, costruendo ipermercati e facendo estinguere le bestie feroci – l’uomo ha sempre cerca di “migliorare” la propria condizione, in particolare quella alimentare.
“Digerseltz” mette in evidenza proprio il rapporto con il cibo e il cibarsi – non solo in quanto sostanza necessaria, ma cibo in quanto rito, consuetudine, atto involontario, coercitivo. «Noi siamo vuoti da riempire» recita Elvira Frosiri, «noi siamo quello che mangiamo» risponderebbe il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach. Ciò che il nostro organismo ingerisce attraverso la bocca lo utilizza per costruire se stesso – e nel caso specifico della donna, la possibilità di nutrire l’Altro. Donna che ha  un legame più simbolico con il cibo: grassa e fertile, di focolare domestico; donna magra e modello rappresentativo della moda, economico e di marketing; etc. Anche se il divario culturale/sociale tra uomo è donna si assottiglia (omologandosi forse in peggio) non si può modificare uno statuto genetico. Del cibo per il cibo, nel caso del maschile. Di materia che non diventa altra materia biologica, ma materia d’essere, coscienziosa, nel caso del femminile: madre per eccellenza, colei che nutre, colei che sacrifica il corpo per un altro corpo.
foto Futura Tittaferrante
Come ben si evidenzia nello spettacolo, ci sono una serie di problematiche legate al cibo – dalla fame nel mondo nel mondo all’obesità, tutte ben «nascoste sotto il tavolo» dei commensali. Sembra quasi che si profetizzino le ultime notizie sulle percentuale di carne non bovina presente in alcune confezioni alimentari. Non sappiamo più cosa mangiamo, ma mangiamo comunque, sempre di più. Lo spettacolo coglie perfettamente il senso di una malessere sociale e personale, di una società che sovrappone il consumismo al proprio consumo.   
Quindi se siamo vuoti da riempire, la performance di Frosiri diventa uno spazio per costruisce una serie di interessanti corti circuiti che rendono lo spettacolo un contenitore di riflessioni da “degustare”. Infatti, come dicevo in precedenza, se parliamo di corpo da sacrificare – e nello spettacolo è chiaro il riferimento alla concezione cristiana del sacrificio, dove il corpo è il luogo dell’ostensione e del sacrificio per eccellenza – non possiamo non considerare che c’è una perversione piacevole di base al nutrirsi dell’altro. Non è il semplice voyeurismo che spinge uno spettatore in teatro, ma è la fame, la fame dell’attore (e viceversa). Il sacrificio della carne è alla base di molte antiche religioni quanto è fondamentale per il rito teatrale dionisiaco. Si può rilevare così lo stretto rapporto tra sacro e violenza – sacro e violenza che soddisfano i bisogni, le angosce e le paure. René Gerard individua nel capro espiatorio (e il termine “tragedia” deriva proprio dalla parola τραγος, capro) un’istituzione culturale sapiente, indispensabile per evitare la violenza di tutti contro tutti: in cui la carne e il sangue sono il pane e il vino. Dunque, come scrive Elvira Frosini, «l’artista è come il maiale: non si butta niente» e quando si “cucina egregiamente” come in questo caso, noi spettatori non possiamo che ritenerci soddisfatti e gustare l’antico e sempre più raro pasto.


Pensieridicartapesta.it, 16 maggio 2013
di Paola Pelagalli
Elvira Frosini: Digerseltz
Elvira Frosini, dopo una iniziale formazione nell’ambito della danza, si dedica al teatro, fondando il laboratorio Kataklisma, e presentando dal 2006 a oggi sui palcoscenici italiani produzioni in qualità di autrice, regista e attrice. Le sue opere percorrono il tema comune dell’incisività di convenzioni sull’identità individuale e i rapporti di potere che si instaurano tra la sovrastruttura sociale e il singolo.
Segue la traccia di queste riflessioni anche la sua ultima opera, Digerseltz e in particolare, Elvira Frosini affronta questa volta il tema della voracità. La riflessione dell’autrice parte dalla voracità nell’alimentazione che, nata in tempi antichi come bisogno naturale dell’uomo, ha subìto fino ad oggi incisive variazioni, allargando il suo campo semantico e acquisendo una significatività distorta di cui l’essere umano si ritrova ad essere vittima.
«Mangiare è una forma di dominio, un atto simbolico in cui si afferma la propria presenza e persistenza nel mondo» – afferma la performer; e tale è stato l’atteggiamento che ha innalzato quest’atto elementare al livello di vero e proprio rito. L’acquisizione di cibo è diventata per l’uomo l’affermazione della propria vitalità, l’atto simbolico per dimostrare al mondo la propria «momentanea vittoria sulla morte» e che è infine degenerato nella spettacolarità di cui l’era contemporanea ha intriso ogni manifestazione sociale.
Elvira Frosini unisce così  alla critica al valore eccessivo attribuito alla celebrazione della nutrizione, una critica aggressiva alla spettacolarità della socialità famelica che muove l’uomo contemporaneo, tentato più dall’appetibilità che dal desiderio vero e proprio dell’oggetto. Indossando un’appariscente parrucca bionda, impersona la donna contemporanea, più di tutti vittima di questo meccanismo, che si muove nella società dell’apparenza nel frenetico e sgraziato tentativo di meravigliare gli astanti e ingozzarsi di sguardi.
Il contributo dell’artista, e in particolare dell’artista di teatro, l’attore, è in questo senso fondamentale: egli si offre in sacrificio alla tavola del pubblico e lascia che i testimoni della sua opera fruiscano di ogni suo gesto. «L’attore si offre al suo pubblico come cibo, compie il gesto simbolico di mangiare in mondo» e per questo ha l’opportunità di riportare il rituale al proprio senso originario, in modo che il mangiare e lo spettacolo non siano più fughe, ma vie per una presa di coscienza dell’essere umani.





"Metabolizzare il presente" di Michele Di Donato
ilpicwick.it, 2 marzo 2013
Sala Ichòs apparecchiata come un desco per pochi convitati, commensali per i quali è appannaggio succulento il menù consistente in degustazione della vivanda teatrale.
Chef, maître e cameriere – ovvero autore, regista e interprete – è Elvira Frosini, da sola in scena a tradurre in immagini dinamiche la parola scritta; la scrittura è concitata e ridondante, serrata ed assonante. Imbandendo convivio di parole, si fa mensa del reale cucinandolo in salsa teatrale.
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E il teatro ben si presta a quest’azione vivandiera, disponendo degli strumenti atti a far sì che la realtà e la finzione s’intercalino l’una nell’altra, come in un gioco di scatole cinesi.
Nel buio mulinanti mascelle grufolano fragorosa voracità, cui fa seguito e s’accompagna monologare parimenti compulsato. Un microfono e una parrucca bionda s’imprestano al gioco del teatro: in scena l’attrice è sola, il microfono e la parrucca consentono l’uscita (e l’entrata) dal (nel) suo personaggio, parlandone in terza persona, spiegando alla platea come ormai lei, l’attrice, sia “diventata una bocca”. Una bocca che ragiona da bocca e come bocca si proietta: prendendo a pretesto la solitudine in scena, “Avete fame?”, chiede alla platea con cui il diaframma chiamato quarta parete è sfoglia sottile come pasta brisée. “Non è che avete fame e non lo sapete?”, cominciando a svelare la portata principale di un banchetto che minaccia di diventar indigesto: il meccanismo subdolo del controllo delle menti e dei bisogni, che sobilla una voracità indotta, che induce a rimpinzarsi anche di ciò di cui non si ha necessità, ingozzati a forza da quel che il sistema propina mediante consolidati meccanismi automatici, atti a suscitare il bisogno del superfluo. L’individuo è indotto (ridotto) a salivare a comando, come una sorta di cane di Pavlov. 

Cannibali cannibalizzati, mangiamo e siamo mangiati, la fame alimenta una forma di cannibalismo, reciproco e parossisitico, per cui si desidera il sangue: “Tu non sei me e io mangio te”, questo è il refrain (sin troppo immediata l’analogia con l'homo homini lupus che Hobbes riprese da filosofo e che Plauto un millennio e mezzo prima aveva già mandato in scena). La ribalta solitaria calcata da Elvira Frosini suggerisce similitudine ellittica: “Sono sola come un pezzetto di carne in mezzo al piatto”; onde ella è al contempo bocca e cibo, così come era attrice e personaggio. Ossessivo e compulsivo è il suo divorare ed il suo essere divorata, si offre come eucarestia di se stessa, le immagini che evoca sulla scena snocciolano ritualità contemporanee dell’accumulazione, da cui non è fatta salva nemmeno la ritualità del sacro, riducendo il precetto evangelico “Io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”, ad esternazione d’un sadico, o al massimo di uno che evidentemente doveva sentirsi in colpa, mentre i suoi propalatori (gli evangelisti) figuranti di cartone. 
foto Claudia Papini
“Mangiatemi” e “Io vi divoro”; intorno a quest’ambivalenza s’apparecchia una bianca tovaglia stesa sul palco, tra i tre figuranti di cartone (Luca, Marco e Matteo). Un minuscolo frigo unico accessorio presente, al suo interno un calice, dentro il calice una compressa effervescente; il frigo è come un confessionale, la penitenza si consuma digerendo, in un singulto l’assoluzione, ma solo dopo aver ingerito ogni sorta di sostanza. Nel frigo non c’è posto per gli spazi vuoti, è fondamentale che ci sia sempre qualcosa da consegnare ad un’attività senza posa che tenga sempre impegnati a mulinar mascelle: ganasce che masticano e non menti che pensano, questo l’assioma sottotraccia.
Quella che era una tovaglia diviene ieratica palandrana che s’avvolge tunica attorno al corpo della Frosini. Sacerdotessa di un sacramentario dell’abbuffata, celebra il credo obeso di un presente perverso: masticando non si pensa, pertanto si sobilla all’ingozzo, ”mangiamo tutto e scordiamo in fretta”, senza assaporare in bocca, senza badare al cibo che diventa bolo, e giù dritto lungo l’esofago, metafora della comunicazione ammannita come pasto succulento, propinata con i surrettizi metodi della persuasione occulta, senza passare attraverso il filtro di qualsivoglia vaglio critico, resettato a forza di bocconi ingollati a forza.
Il rituale – laico – del compleanno svilito di senso dal mesto disincanto della voce di Claudio Lolli (La guerra è finita), fa da prodromo al rituale – sacrale – del presepe in scena, anch’esso dissacrato, in cui la Frosini (eccellente nel tenere il ritmo verbale e la scena), soppianta la Madonna, ribadendo che anche in quell’oasi sacrale, come nella vita, o mangi o ti fai mangiare.
Ancora ritorna il gioco delle scatole cinesi, del teatro nel teatro, con lei che cura la regia del presepe e dell’ultima cena (che è poi anche l’ultima scena), come una prova aperta della cui riuscita domanda al pubblico conferma, un istante prima che sia il buio ad ingoiarla: “E’ venuta bene?”.

Mascherando il singulto di chi satollo s’appresta a deglutire e a lasciare il desco, annuiamo soddisfatti.



"Ossessioni alimentari" di Antonio Stornaiuolo
quartaparetepress.it,  1 marzo 2013
C’è un buio caldo a Sala Ichos quando i pochi spettatori varcano la soglia del “foyer”: sibila nel silenzio un senso di quiete maturata in solitudine, quiete macerata, lacerante, digerita. Poi rotta, nel buio, da un mangiucchiare frenetico che si sente ma non si vede, da una bocca solo udita che consuma e si ingozza convulsa.
È così, in un clima quasi religioso, misterico, che Digerseltz, di e con Elvira Frosini, più che presentarsi, si rende necessario a causa dell’abbondanza di strepitii vocali di denti che lavorano.
Quando poi – ma piano -  la luce si insinua sul proscenio, una donna, che è solo una donna e un’attrice sola, comincia a recitare contesti quotidiani, paradossali, inumani continuamente inondati di leccornie e comunemente caratterizzati dall’ossessiva presenza di cibo: la festa, il mito della famiglia felice che banchetta, il presepe.
Ma, nella rappresentazione di situazioni alimentari, l’attore stesso finisce per diventare cibo: egli nutre di sé gli occhi dello spettatore, il quale attende come dinanzi ad un pezzetto di carne in mezzo al piatto, alimenta le sue fantasia, solletica i suoi sensi, gli genera acquoline tenendolo avvinto a sé.
E la Frosini, davvero brillante nei passaggi più arditi di enumerazioni di parole assonanti pronunciate da una bocca sempre in movimento, è fisicamente un “pezzetto di carne”, la sua materialità corrisponde alle alate parole. 
foto Futura Tittaferrante
Tuttavia non c’è tempo per fermarsi a riflettere, si è già fatta troppa metafisica intorno alla eucarestia dei teatranti, già troppo vuoto si è creato tutto intorno. Perché è il vuoto che spaventa, quello del frigo e quello dell’anima, e che va riempito quanto prima così come la scena. Perché l’attore deve trovare compagnia nella sua solitudine o, almeno, nelle sagome che ad un certo punto finiscono per affollare la scena. Perché mangiamo e scordiamo in fretta ed ecco che l’urgenza di riempire/ci di nuovo spinge a tornare a tavola.
L’ultima scena è una ultima cena.
Si riafferma così la necessità e quasi un gusto sottile di farsi cibo per gli altri, non pratica cannibalesca, ma di salvazione, accompagnata però da un darwinismo sociale – ma sotto sotto anche materiale – per cui “chi non mangia finisce mangiato”
La pièce, nevrotica così come l’ossessivo ricorso al cibo del nostro tempo e della nostra parte di mondo, punge e strania senza però accompagnare lo spettatore verso un esito ben definito, lasciandolo col suo bruciore allo stomaco e con la sensazione di un’incompiuta. Agli edaci astanti non resta che un corpo, offerto in sacrificio per loro, e un misto di smarrimento e incomprensione. Il buio si riappropria dello spettatore, ma una domanda arriva dalla scena: «È venuta bene, no?».






Monica De Giuli
Persinsala.it, 19 febbraio 2013
L’inizio dello spettacolo è decisamente di grande impatto. Il pubblico si ritrova in sala immerso nel buio più totale alle prese con qualcuno – umano o animale non si potrebbe dire – che sta decisamente sbranando qualcosa: cibo – carne animale o umana? Il rumore della masticazione è forte, la sensazione è strana, quasi fastidiosa, e l’interrogativo di ciò che sta per succedere è sempre più grande, quasi claustrofobico. Il momento si prolunga, i rumori diventano sempre più concreti, la masticazione appare ormai quasi soggettiva, la sensazione è di avere in bocca quel qualcosa di cui non abbiamo certezza.
Poi, finalmente, la luce si accende e, con essa, Elvira Frosini e il cibo – la vera ossessione del nostro tempo e di noi stessi che ne facciamo un uso spropositato o, al contrario, lo rifiutiamo con sdegno – assurgono a protagonisti. La Frosini, interprete e autrice dello spettacolo, passa in rassegna, uno dopo l’altro e con ritmo febbrile, i momenti in cui la bocca e il mangiare posso dirsi “momenti chiave” della nostra vita, a partire dagli episodi più intimi dell’individuo – come quando la mamma, da piccoli, ci costringeva a mangiare anche quando non ne avevamo voglia – fino ad arrivare a un pelo dalla blasfemia con la messa in scena dell’Ultima Cena, in cui il Corpo e il Sangue di Cristo diventano il pane e il vino dei suoi Discepoli e dell’intera Comunità Cristiana. Un solo corpo in scena, quello dell’attrice, che si mette a nudo e si offre come vittima sacrificale al proprio pubblico – così come tutti noi siamo, potenzialmente, vittime e carnefici l’uno dell’altro. Perché tutto è bocca, tutto è un continuo sbranarsi: di baci, di morsi, vicendevolmente, con le parole, con i gesti, con le carezze, sbranare un agnellino, un banchetto o addirittura il prossimo. Uno spettacolo a tratti divertente, a tratti lievemente cruento, che ci spinge a riflettere sull’abuso di cibo nella nostra società ma, allo stesso tempo, ci pone di fronte ai rapporti interpersonali che ci contraddistinguono: troppo spesso violenti, quasi al limite del cannibalismo.
Molto brava Elvira Frosini, sia dal punto di vista autorale che attorale. Dispiace solo che il pubblico abbia reagito tiepidamente a uno spettacolo di grande impatto. Un buon punto di partenza per una riflessione su risvolti di tipo mitologico, sociale e politico attraverso la metafora del cibo.
 



Carmen Albanese
Saltinaria.it - 17 maggio 2012

Come di rado accade, stavolta il palco, più che luogo di elevazione del personaggio, prende le sembianze di uno spazio interiore amplificato su una superficie che esalta proprio la sua situazione di distanza dal resto, tra l’ estraniazione dal mondo sociale che l’ ha masticato e lo straniamento del pubblico alterato dall’ alterità di cui è stato segnato e che i suoi sensi ricevono e restituiscono nella loro nuda spontaneità. La donna di carne e plastica attraverserà questo viaggio insieme a una dose di poetica ironia che renderà il sotteso dramma uno spettacolo suggestivo ed intriso di sogno…chissà che svegliandoci, non possa cambiar qualcosa. Costante comune al collaboratore artistico Timpano, Elvira Frosini seppur in tutt’ altra maniera sperimenterà qui l’ efficacia di una comunicazione che nella sua toccante incisività andrà oltre la banale imposizione rappresentativa delle questioni affrontate. 



Ines Baraldi
recensito.net - 11 maggio 2012
 
Dal centro della scena, una spettinata parrucca bionda calata fin sugli occhi e il corpo leggermente reclinato in avanti, Elvira Frosini per la prima di “Digerseltz” raggiunge le fila della Sala Orfeo al ritmo di una marcia gutturale, amplificata da un microfono e ributtante salivazione, deglutita e rigurgitata a ciclo continuo.
All’appetito del pubblico e a un desiderio eccessivo ma scollegato da necessità di sostentamento fa appello e si offre l’ultima produzione di Kataklisma, collocandosi al margine di un bel contorno di visioni pop. Sul punctum della portata, che s’impunta appunto al bordo del piatto, c’è infatti ben poco da dubitare: “Can you eat me? I’m looking for somebody eating me. Happy meal!”, risuona come una sfida anche alla bocca dello stomaco più allenato. Possiamo dirci affamati o possiamo decidere di negarci il cibo o questo tipo di cibo – volendo, potremmo perfino decidere di assuefarci ai fluidi tossici dei Mugwump di “Naked Lunch” – in ogni modo il silenzio vestirà il vuoto delle pareti dello stomaco invisibile che circonda l’attrice-performer, scarto in attesa sulla soglia di «quel buco dove tutto passa» o si presume dovrebbe passare.
Ma il silenzio è anche quello dei banchetti luculliani delle feste e dei pranzi di famiglia e quello assordante della negazione del pensiero e della sua metabolizzazione, che ben amplificano la propria eco nella logorrea del significante: una ciotola di semi di mais scoppiati e finti di cui insozzare bocca e palcoscenico e da risputare poi violentemente fuori di sé. Il cannibalismo sotteso e incitato a questa mensa, in cui «o mangi o sei mangiato», non può essere negato nemmeno in occasione di un’ultima cena dipinta a colpi di sensi di colpa ed espiazioni, alla cui tavola nemmeno i bidimensionali figuranti risultano meno affamati.
A cospetto del rituale e della pratica culturale massificata del mangiare, “Digerseltz” riesce ad opporre parole incarnate e pensanti, e per questo così profondamente resistenti. 



Silvia Ianniello
Persinsala.it  - 12 maggio 2012
Una ricetta colma di ingredienti ipercalorici che produce un alimento digeribilissimo e salutare. Possibile? Chiedete a Elvira Frosini, artefice di questo mix incredibilmente edificante chiamato Digerseltz. Difficile immaginare la metafora alimentare spinta a limiti più estremi, radicali, suggestivi di quanto abbia fatto lei con questo suo monologo. Tutto ha inizio con un masticare forsennato e ossessivo, amplificato dal microfono, che invade la sala buia. Gradualmente un fascio di luce prende corpo sulla Frosini, figura minuta e sinistra che ruminando rimugina a voce alta, in un flusso implacabile di associazioni, visioni oniriche e lugubri, talvolta nauseanti, che coniugano la semantica del cibo in tutte le possibili flessioni. È straordinario come, battuta dopo battuta, vada profilandosi un banchetto in cui il convitato è anche portata, in uno scenario metaforico che coinvolge la collettività sociale e la realtà individuale, la sfera politica, quella religiosa e, non ultima, anzi forse addirittura prima, quella artistica.
L’educazione che si impartisce ai bambini, l’impostazione etica del mangiare senza polemiche pensando a chi è meno fortunato, diventa qui il simbolo dell’attitudine a divorare senza filtro, senza gusto né attenzione, tutto quanto viene offerto – polpettoni mediatici, croste di disinformazione, lieviti acritici – e l’affamato deve masticare in silenzio e senza commentare, all’insegna del motto – ripetuto a tratti nel monologo come un mantra inquietante – «mangiamo tutto e scordiamo in fretta». Il cibo, non la persona, è protagonista delle relazioni sociali: vedersi per prendere un caffè, un aperitivo, una pizza, e non per stare insieme e parlare, è una triste realtà dei rapporti contemporanei, portata in scena con spudorato realismo; l’occasione, il pretesto dell’incontro diventa il fulcro dell’incontro stesso perché non si riesce più a comunicare sensibilmente, nonostante la bulimia di parole che mal camuffa la stitichezza di contenuti.
L’esplorazione della Frosini si inerpica in itinerari sinuosi e complessi, e in un continuo di associazioni, giochi linguistici e allucinazioni arriva a toccare la figura di Cristo, portato nel mondo per essere sacrificato e mandato al macello: un archetipo sadico – essere generati, cresciuti, ingrassati per essere uccisi, metafora dell’esistenza umana che trascina con sé il senso della vita di ciascuno e l’ossessione della morte – perpetuato nel rituale della cena, di un corpo da mangiare, un sangue da bere, tutti, in silenzio e per sempre.
Digerseltz dovrebbe essere, per la mole poderosa di contenuti, uno spettacolo indigeribile quanto una cena cinese, e invece scorre come una bevanda elettrolitica, si lascia seguire con attenzione, soprattutto per la naturale capacità della Frosini di non prendersi sul serio, di stare sul palco solida e leggera, esponendo se stessa e la sua creazione al giudizio insindacabile del pubblico, sola, come è solo un «limone nel frigo», «un pezzetto di formaggio in mezzo al piatto». Come è solo, sempre e ora più che mai, l’artista.

 

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